Quiet Quitting o Strategica Autodifesa?
Cosa ci sta dicendo davvero il tuo team (e perché dovresti ascoltarlo)
C’è stato un tempo in cui il silenzio in ufficio significava concentrazione. Oggi, spesso, significa “sto facendo il minimo indispensabile perché ho chiuso i rubinetti dell’energia emotiva, e no, non ho voglia di parlarne”.
Benvenuti nell’era del quiet quitting.
Nessuna lettera di dimissioni. Nessuna scenata in open space. Solo un lento e silenzioso disimpegno, mascherato da performance accettabili. In altre parole: la persona è presente, ma il suo coinvolgimento no.
Molti manager lo notano tardi. I numeri reggono, i report arrivano, le riunioni si fanno. Ma manca qualcosa. Una scintilla. Una domanda in più. Un’idea fuori dagli schemi. La differenza tra “fare il lavoro” e “esserci davvero”.
Il quiet quitting non è pigrizia.
Non è “la nuova generazione che non ha voglia di lavorare”.
È, molto spesso, una strategia di sopravvivenza psicologica in contesti aziendali che chiedono molto e restituiscono poco: poca chiarezza, poca comunicazione autentica, poca attenzione alle dinamiche interne di team.
I segnali (subdoli) che qualcosa non torna:
- Il team sembra “tranquillo”... troppo tranquillo
- Nessuno fa più domande durante le riunioni
- Le email hanno il tono emotivo di un semaforo rosso
- Le proposte sono in calo, ma i lamenti in pausa caffè sono in crescita
- L’ironia (quella vera, viva, sana) è sparita – e con lei, spesso, anche la fiducia
Insomma, le persone non urlano. Ma il silenzio pesa. E parla.
Il mito del dipendente “motivatissimo” è solo un mito.
Spoiler: nessuno è motivato sempre.
Eppure molte aziende ancora confondono il coinvolgimento con l’entusiasmo costante.
Ma i team non sono gruppi di cheerleader. Sono sistemi viventi, relazionali, dove le motivazioni si costruiscono (o si sgretolano) giorno per giorno.
La verità? La motivazione non è una dote individuale, è un prodotto relazionale. E se in azienda c’è un problema strutturale, il primo segnale d’allarme non sarà un crollo di fatturato: sarà quel collaboratore brillante che smette di brillare.
E se il quiet quitting fosse l’azienda a farlo per prima?
Lo so, è solo una provocazione, ma se, davvero, il primo ad aver mollato fosse il sistema organizzativo?
- Ha smesso di comunicare con chiarezza
- Ha smesso di valorizzare i talenti
- Ha smesso di ascoltare davvero
- Ha smesso di prendersi cura (prima ancora della performance, delle persone)
In questo senso, il quiet quitting non è il problema. È il sintomo.
E come ogni sintomo, serve a segnalare che c’è qualcosa che non funziona – ma che può ancora essere curato.
La buona notizia? I team parlano. Basta saperli ascoltare.
Serve un cambio di sguardo: dal controllo alla connessione, dalla performance pura alla partecipazione sentita.
Serve uno spazio in cui i team possano sbloccarsi, esprimersi, e trasformare il lavoro in qualcosa che ha senso – per l’azienda e per chi ci lavora.
Perché se è vero che oggi si parla molto di quiet quitting, è ancora più vero che dietro ogni team disconnesso c’è sempre un potenziale inespresso che aspetta solo di essere riattivato.
Non serve magia. Serve intenzione. E (finalmente) una leadership che si fa domande vere.
A chi potrebbe piacere questo articolo?